Kintsugi
di cosa si tratta?
Kintsugi
di cosa si tratta?
Il Kintsugi è la magia di trasformare fratture in trame d’oro, un inno alla bellezza delle ferite guarite con eleganza e forza.
Celebra l’imperfezione, trasmettendo una poesia di resilienza e cambiamento incastonato nell’oro della riparazione.
Le radici storiche del Kintsugi affondano nel XV secolo del Giappone durante il periodo Muromachi. La pratica del Kintsugi ebbe inizio quando lo shogun Ashikaga Yoshimasa ruppe accidentalmente una delle sue più preziose tazze da te. Subito inviò la ceramica danneggiata in Cina perché la riparassero, ma il risultato fu deludente: vennero applicati dei punti metallici per rimettere assieme i pezzi, in questo modo la tazza rimaneva inutilizzabile.
In risposta a questa insoddisfazione, i maestri artigiani giapponesi svilupparono una tecnica più sofisticata. Invece di nascondere le imperfezioni, decisero di celebrarle incorporando polvere d’oro nelle giunture. Questa innovazione trasformò il processo di riparazione in un’arte a sé stante, denominata “Kintsukuroi,” che significa letteralmente “riparare con l’oro.”
Oltre a essere un metodo di restauro, il Kintsugi assume una profonda dimensione filosofica. Rappresenta il concetto giapponese di “wabi-sabi” che celebra la bellezza nelle imperfezioni e riconosce l’impermanenza della vita. Le fratture e le cicatrici fanno parte integrante della storia di un oggetto, conferendogli un valore unico e una bellezza intrinseca.
Oggi, il Kintsugi è apprezzato non solo come tecnica di restauro, ma come forma d’arte e espressione di una visione del mondo che accoglie la transitorietà e la trasformazione come elementi fondamentali della vita e della creatività.
Provo a raccontarvi le diverse fasi del Kintsugi a partire dalla mia esperienza. Condivido con voi quello che ho provato mentre cercavo di ricostruirmi, con fatica, impegno e determinazione.
Ci sono state volte in cui ho avuto la percezione che qualcosa dentro di me si rompesse. Mi sono sentito fragile e vulnerabile, proprio io che pensavo di non avere punti deboli, di poter resistere incolume a tutto.
Ho visto i miei cocci rotti sparsi sul pavimento, disordinati, feriti. Ho provato il dolore che ne derivava, l’ho vissuto. Le ferite aperte che vorresti solo dimenticare e mettere a tacere perché ascoltarle fa troppo male.
Ho dovuto accettare che quei pezzi fossero i miei e non di qualcun altro, toccarli, raccoglierli. Non è vero che il tempo guarisce ogni ferita, o meglio, non da solo. Il tempo è necessario, ma occorre qualcuno in grado di rimettere assieme i pezzi, e quel qualcuno posso essere solo io.
Io posso riordinare, rinsaldare, ricucire, ripristinare ciò che di me è andato in frantumi. A volte è necessaria una guida, un sostegno, un aiuto, ma le mani le devo mettere io.
Ho impiegato tempo a capirlo e soprattutto ad accettarlo, la mia psicoterapeuta mi è testimone.
Quando mi sono visto in frantumi, quando ho visto i pezzi rotti davanti a me volevo lasciar perdere, volevo arrendermi.
Non volevo fossero i mei cocci, non volevo vedermi fragile, non volevo accettare ciò che mi aveva portato a rompermi. Lì ho odiati.
Poi è arrivato un momento, non so di preciso quando, non so di preciso come, in cui ho trovato il coraggio di guardarli. Poi, a poco a poco ho allungato la mano e li ho sfiorati. Ne ho raccolto uno, poi un altro, un terzo, un altro ancora. Dopo averli accolti a fatica nelle mie mani e averli guardati uno ad uno ho provato a ricomporre nella mente l’immagine di me che c’era prima.
Così ho iniziato a incastrare i vari pezzi uno alla volta per vedere se potevano combaciare ancora, se in qualche modo potevano ancora servire a qualcosa. La mia immagine tornava a prendere forma, tornava ad essere familiare, la colla cominciava a funzionare.
Lì ho capito che ce l’avrei fatta a ricompormi, nonostante la strada fosse ancora lunga e difficile. Con le mie mani ho iniziato a ricostruirmi.
Quando ho iniziato a rimettere assieme i pezzi, con fatica, mi sono accorto che per tanta cura e impegno mettessi, qualche pezzo non combaciava più come prima.
In alcuni punti le ferite rimanevano aperte, in altri rimaneva addirittura un buco: qui una piccola scheggia, lì un intero pezzo. Io ho cercato ovunque ma di queste tessere mancanti nemmeno l’ombra. “Chi se le sarà portate via?” mi chiedevo.
Così ho iniziato a riempire i buchi, le imperfezioni, non potevo sopportare tutti quegli spazi vuoti, quelle fessure che stavano lì a ricordarmi di come mi fossi rotto.
Ho utilizzato tutto ciò che avevo a disposizione, qualsiasi cosa andava bene purché le aperture si chiudessero al più presto. “Non mi importa, devo tornare come prima” mi ripetevo.
I buchi si sono riempiti. Alcuni fino all’orlo, alcuni hanno sigillato le ferite, alcuni hanno straripato, alcuni si sono riaperti.
Mi sono reso conto di essere appena a metà dell’opera, la strada per la ricostruzione era ancora lunga..
Preso com’ero dalla foga di riempire i buchi e i vuoti che vedevo in me stesso, ho aggiunto, aggiunto, aggiunto senza fermarmi, qualsiasi cosa andava bene.
Alcune cose andavano bene, ne avevo bisogno, altre no, erano semplicemente superflue ma non me ne rendevo conto.
Ho realizzato che sopra ai buchi avevo costruito delle montagne, che ora erano da spianare.
Di nuovo fatica, di nuovo correggere il tiro, ma ne valeva la pena. Ho iniziato a togliere, togliere tutto il superfluo e a tenere solo ciò che effettivamente mi serviva.
Snervante, difficile, frustrante ma cominciavo a riprendere forma, cominciavo a riconoscermi di nuovo…
Ho iniziato ad applicare il cambiamento.
Fino ad ora tante parole, tante consapevolezze in più, tanti propositi, tanti tentativi…È arrivato un momento in cui ho iniziato a fare mio il cambiamento, ad applicarlo, a vivere veramente con le mie cicatrici.
È come se tutte le crepe richiuse, i buchi riempiti e gli eccessi rimossi avessero trovato un equilibrio, restituendo in immagine nuova di me.
Quello era il momento di sigillare, di rendere impermeabile tutto il lavoro fatto fino a quel momento e di farlo mio nel mio quotidiano. Giorno dopo giorno.
È la fase forse più difficile nel lungo periodo. Restituire il soffio vitale ai cocci che fino a qualche tempo prima nemmeno riconoscevo come miei e dire: questo sono io. Imparare a dirlo ogni giorno. Manca poco all’arrivo, e sarà bellissimo ❤️
Ho messo l’oro sulle mie ferite e le ho rivelate al mondo.
Alla fine è arrivato il momento tanto atteso, quello in cui ti guardi indietro e ti rendi conto di quanta strada hai fatto, quello in cui capisci di avercela fatta.
Proprio così, capisci di avercela fatta ad andare avanti quando tutto ti sembrava più grande di te, quando ti sembrava di essere fermo o di tornare indietro.
Quella ferita profonda che sempre mi porterò non sanguina più, l’ho ricucita, me ne sono preso cura e continuo a farlo, e ora sono pronto a mostrarla al mondo come parte di me.
Sono pronto ad applicarle l’oro. L’oro che impreziosisce, che dona valore.
Ma non è la ferita ad acquisire valore, non è la rottura, sono io ad uscirne impreziosito. Tutto ciò che ho messo in campo per arrivare dove sono ora, tutto ciò che non pensavo di avere, tutto ciò che sono.
Il viaggio per arrivare qui, ricostruito è un merito che posso dare solo a me. (E grazie a chi mi è stato vicino e mi ha accompagnato lungo il cammino)